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Il Castello di Torella del Sannio

A cura di Carmen e Wanda Conte

 

Non conosciamo l’epoca della sua costruzione e sappiamo molto poco della sua millenaria esistenza, e delle sue vicende storiche e umane. Qualche documento fa supporre che avesse un nome, la Torella, che più tardi sarebbe passato a denominarne il borgo. Dalla copia di un grafico di fra’ Zagamo Jacopone, Celestino da Limosano del XIV secolo, apprendiamo, con tutte le dovute precauzioni, che il Castello di Messer Cicco, posto sul Ciglione, aveva un antagonista, sul Colle adiacente, nel geniale e turbolento Capitan Ciannarra. Posto sulla linea del tratturo Lucera – Castel di Sangro, gli fu attribuito da qualcuno il ruolo di castello fiscale, da qualche altro di castello-razzia. Ma la sua vera natura di castello-fortezza la leggiamo nell’apprezzo della Terra di Torella del 1692, a firma del tabulario Antonio Galluccio, lungamente e inutilmente da noi cercato nei vari archivi, ivi compreso quello di Napoli. Un caso del tutto fortuito ci ha permesso nel 2016 di reperirlo nella pubblicazione del testo “Comunità e Territorio” di Elisa Novi Chavarria e Valeria Cocozza, a cura dell’IRESMO – Palladino Editore 2015, per merito dell’avvocato Gianluigi Ciamarra. L’apprezzo del 1692, nonostante la scoperta della polvere da sparo, che rendeva inutile la muraglia, ci riporta ancora un fortilizio munito di un ponte levatoio e di una sala d’armi. Nel tempo, molti sono stati i feudatari che l’hanno posseduto, ben pochi coloro che lo hanno almeno visitato, rari quelli che lo hanno abitato. Tra questi ultimi, assiduo frequentatore fu Ottavio di Capua del Balzo che non tralasciava 38 39 occasione per angariare i suoi vassalli. Giungeva a Torella sempre in compagnia di un nutrito seguito di cortigiani, amici e parenti e, per dar loro comodità e spazio requisiva terrazzani, animali, stalle per le loro cavalcature, coperte, lenzuola e materassi per i letti, stoviglie, posate e tutto quanto serviva. Spesso il castello è stato colpito e danneggiato da fulmini, intemperie e terremoti come quello del 1805 che lo ridusse a un cumulo di macerie. Dopo il terremoto del 1805, l’eversione della feudalità del 1806 e la morte di Giovanni Francone nello stesso anno, i principi Caracciolo-Torchiarolo, che lo avevano avuto in eredità dai Francone, decisero di sbarazzarsi del pesante fardello economico e di venderlo. L’acquirente fu Gennaro Ciamarra, figlio del defunto Gregorio, già amministratore di quella proprietà. Così, il giorno 18 gennaio 1825, in Salcito, il notaio Michelangelo di Fonzo redasse l’atto di vendita e l’antico maniero, orgoglio e prestigio dei feudatari come lo è oggi per i cittadini torellesi, venne alienato per soli cento ducati. La somma inadeguata, in verità, viene giustificata nello stesso documento dell’atto di vendita per essere “un locale di palagio diruto con il solo recinto di muraglia di pertinenza di essi principi Torchiarolo, sito nel comune di Torella nel luogo denominato Ciglione, isolato, confinante da tutti i lati con le strade pubbliche e suolo comunale”. Il Castello fu completamente ristrutturato dai nuovi proprietari. Abbattuto il ponte levatoio della vecchia costruzione, rimasero, tolte le merlature, le tre torri cilindriche a base tronco-conica e quella quadrata abbassata. Chiuso il cortile scoperto, al piano terra fu impiantata, per l’accesso al piano soprastante, una monumentale scalinata con vari ordini di rampe, ancora ben utilizzabile. Non mancano due loggioni, uno esposto a nord-ovest e l’altro a sud, a rendere l’opera più a misura d’uomo. Sembra, tuttavia, che la parte dell’edificio rivolta a est sia stata poco compromessa dalla ristrutturazione, tanto che la strada sottostante venne chiamata “via del Castello Vecchio”. L’edificio ristrutturato prese il nome di Palazzo Ciamarra. Il popolo, però, lo soprannominò il “Vaticano” per i benefici che ne riceveva, in particolare da Donna Carmela e Donna Maria. Non era raro vedere gente seduta accanto al grande fuoco del camino sempre acceso della cucina cosiddetta Tavolato. E non mancava mai per loro uno “scattóne” ben caldo o un piatto di “sàgne” e fagioli. Certo non fu un convento, ma vero fulcro di cultura perché Donna Carmela e la dolce Donna Maria, col beneplacito dei fratelli, non dicevano mai di no a chi voleva acculturarsi, specialmente se giovani. Per loro Donna Carmela creò una scuola privata, gratis, dedicata alla scrittrice Selma Lagerlöf, che gestiva con amore e competenza, anticipando i metodi moderni. Sempre attenta alle necessità altrui, accorreva ovunque, anche di notte, sotto la pioggia, la grandine, la neve: medicava, fasciava, faceva iniezioni dietro i consigli di Manfredo, fratello medico che non esercitava la professione. Non erano ricchi perché l’epoca d’oro della famiglia era terminata con l’emigrazione dei contadini che coltivavano le loro terre. Negli ultimi tempi Donna Carmela era arrivata, indebitandosi, a pagare persino i contributi per la pensione a gente povera che non poteva permetterselo. Il Castello Ciamarra subì un’altra profonda ferita durante il Secondo Conflitto Mondiale col bombardamento dell’ottobre del 1943. Il drammatico episodio ci viene raccontato nel libro “Stanvè” di Minna Cammarano, allora bambina, mentre si trovava con i familiari nel castello, da essi chiamato “casa di campagna”: […] Casa e campagna che tutti credevano così fermamente fuori dalla guerra da essere poi ingenuamente esterrefatti quando le bombe cominciarono, con magnifica precisione, ad abbattersi giusto sul tavolo di cucina, mentre le prozie erano intente, innalzando pie stonature di riconoscenza al Signore, ad 40 41 Palazzo Ciamarra (da un disegno del XIX sec.) arrotolar gnocchi. Una delle tre torri perse un fianco (tanto per cominciare), tre camere si trasformarono in un attimo in bizzarri peristilii, le tre galline che circolavano libere per casa – vuoi per riconoscenza per le uova che avrebbero dovuto farci, qualora fortemente incoraggiate, vuoi per averle più a tiro nella luttuosa ma impellente evenienza di una rapida esecuzione- schizzarono (e non mi si dica mai più che non sanno volare) sino ai pertugi che poc’anzi erano state solide volte, e di loro non si ebbero più nuove. Le schegge dei vetri scoppiati, i calcinacci fumanti ed una sorta di tristo e minaccioso rumor di sgretolio, simile al rombo del tuono quando avverte che il meglio deve ancora venire, ci spinsero muti e, temo, con spintoni affatto cavallereschi per le vecchie zie, in folle galoppo giù per le scale, nostro padre, eroico, buon primo, mia madre in coda, la tavolozza ancora innestata nel pollice e avvertendo, in preda a gelido isterismo: “Credo che le coppe da champagne siano andate in pezzi… ho udito un tale scintillante…sì! Scintillante fracasso di cristalli… Le coppe! Le coppe del… dell’anima mia! Tu mi faresti bestemmiare anche in punto di morte, Elena, pergiove!…” E la prima cameriera, distinta friulana, fianchi sodi e nervi a posto: “Dottore! Guadagnamo (disse proprio guadagnamo) la cantina! Poi vedrò come sistemarci… Oggi il Castello è ancora abitato: l’ala prossima alla Chiesa, la più antica, dagli eredi Ciamarra-Cammarano, l’altra dal signor Pasquale Venditti di Bojano, che la rilevò nel 2005 dagli eredi di Aurelio Ciamarra. è visitabile come monumento nazionale e “Casa-Museo” della pittrice Elena Ciamarra-Cammarano, dove si può ammirare la bellezza e il valore della sua poderosa produzione artistica.

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